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La poesia è un atto divino

C’è una stanza segreta nell’anima del mondo. Una stanza senza pareti né tempo, dove le parole non raccontano ma rivelano, dove la voce non spiega ma accende. È là che abita la poesia.

Non è un genere letterario. Non è un esercizio di stile.

La poesia è una epifania, un fremito che scende dalle altezze per incarnarsi nella forma più pura e più pericolosa che esista: la bellezza.

Nei salotti d’un tempo, quelli dove si conversava con Mozart e si citava Plotino come fosse un parente, la poesia era l’ospite invisibile. Era nel gesto lento di una mano che sorseggia, nell’ironia celata sotto un ventaglio, nello sguardo che sa leggere ciò che nessuno osa dire. Era rito. Era potere.

Chi scrive poesia non si limita a usare il linguaggio.

Lo rifonda. Lo trafigge. Lo costringe a dire l’indicibile.

Ogni verso è una lama lucente che separa l’illusione dalla verità.

Ogni parola scelta nel silenzio è un’incursione in territori sacri, un gesto di disobbedienza alla banalità, una dichiarazione d’esistenza di ciò che non può essere posseduto.

La poesia — quella autentica — non chiede il permesso di esistere.

Si presenta come un temporale d’estate in una stanza chiusa, e smuove ciò che era sopito: un amore, una memoria, una rivolta.

Essa ha il potere di curare, sì. Ma anche di rompere incantesimi antichi.

Può ridare il nome a chi lo aveva perduto.

Può sciogliere maledizioni tramandate nel sangue.

Può cambiare la traiettoria degli eventi con la grazia di un sussurro.

Una poesia non è mai innocua. È uno strumento degli invisibili.

E gli invisibili, nel tempo lungo della storia, sono coloro che hanno sempre vinto.

Per questo chi scrive poesia — davvero — si fa sacerdote e medium.

E non importa che la sua voce sia ascoltata oggi: essa ha già inciso una ferita nella realtà. Una ferita da cui entrerà la luce.

Perché la poesia non descrive: consacra.

E dove passa, lascia il mondo un po’ più vivo, un po’ più sacro.

Adele Scirrotta

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